Ugo Ojetti

Hector Malot e le ingiustizie della fama

Milano, 19 luglio. – È morto jeri a settantasett'anni Hector Malot. I giornali pubblicano la notizia in due righe, escludendo definitivamente dalla letteratura i sessantacinque volumi scritti da Malot. Se questa diventerà l'opinione della posterità, si può dir subito che sarà iniqua.
  Sans famille è un capolavoro di narrazione. Che un libro, perché è dedicato ai ragazzi, non possa essere un capolavoro, quest'è un pregiudizio corrente nella critica letteraria: Edmondo De Amicis ne sa qualche cosa. Lo stesso Malot racconta nel suo sincerissimo Roman de mes romans gli sbadigli fatti nella sua infanzia sugl'insipidi libri "ad uso dei giovinetti" che allora pubblicava l'editore Mame con l'approvazione obbligatoria dell'arcivescovo di Tours: essi gli davano la stessa impressione del bicchiere in cui tre volte all'anno i suoi affettuosi genitori gli facevano ingojare una certa medicina oleosa e liberatrice. Pubblicando nel 1870 Sans famille egli cercò di liberare i ragazzi da quella noja ineffabile, e tutti noi che allora bambini piangemmo sulle avventure del povero Remì, vivemmo con lui presso la vecchia Barbarin e respirammo l'odor del poco fieno destinato alla Roussette e viaggiammo il mondo dietro "il signor Vitalis" e i suoi cani ammaestrati, Capi, Zerbino e Dolce, e discendemmo sul barcone d'Arturo Milligan la verde Garonna e il Canal du Midi, ed entrammo dietro lo zio Gaspard nelle miniere di Varses, e palpitammo d'angoscia chiusi con Remì laggiù nel buio asfissiante durante l'inondazione, e palpitammo di gioja quand'egli a Londra ritrovò nella signora Milligan sua madre e in Mattia suo fratello, – sappiamo che Hector Malot riescì nel suo còmpito con una delicatezza d'emozione e una leggiadria d'immaginazione ben più umane e profonde e durevoli di quelle che alla stessa epoca trovavamo nelle favole scientifiche di Jules Verne o di Mayne Reid.
  Questa gratitudine ci ha fatto velo quando, più grandi, abbiamo letto Une femme d'argent o Conscience? So solo che la carriera d'Hector Malot può esser chiusa fra due giudizii: quello che nel 1865 fu scritto da Ippolito Taine sui Débats a proposito delle Victimes d'amour, e quello che nel 1888 fu scritto da Anatole France sul Temps a proposito di Conscience. E sono anto umile da essere soddisfattissimo di trovarmi d'accordo con due critici di quel nome.
  Taine, in quell'articolo scritto per salutare l'ingegno precoce originale e solido d'un uomo che egli non conosceva e non aveva mai veduto, dopo molte lodi pose una sola critica: la mancanza di artificio, che era qualche volta una mancanza di arte. E fu profeta. Dal 1865 gli applausi, anche in pieno trionfo della scuola verista, andarono più e più alla letteratura in cui la mancanza d'arte fosse velata dall'abbondanza dell'artificio. Ed Hector Malot che per quarant'anni ha vissuto in campagna, andando a Parigi solo una o due volte al mese per vedere i suoi editori, più e più aborrì dall'artificio ed ottenne in compenso la gratitudine dei lettori, perdendo l'attenzione dei critici. I suoi libri, tutti rapidi, mossi, densi d'azione, precisi di piccoli e sicuri fatti espressivi, non davano occasione a dispute letterarie, non erano né con Zola, né coi romantici, né coi mistici, né con gl'ironisti. E per non essere stato il seguace di nessuno, Hector Malot si trovò senza seguaci.
  Nel 1895, dopo aver pubblicato nel Temps due romanzi di fila, Amours de jeune e Amours de vieux, egli indirizzò al direttore di quel giornale una lettera aperta intitolata "P.P.C.", per prender congedo e per dire che l'artista, a una certa età, quando sente di non poter più dire qualcosa di nuovo o di suo, deve cessare di scrivere. Quelli che insistono, insistono più per orgoglio, per cupidigia. "Ce n'est pas la plume à la main que ceux-la meurent: c'est l'argent à la main".
E come un buon operajo che dopo un lungo lavoro parte in vacanza, se ne venne in Italia. Era già stato a Roma per scrivere il suo romanzo "Un comte du pape". Allora vi tornò senza nemmeno un taccuino per le sue note, e vi restò qualche settimana così felice, così tranquillo, così lontano da ogni rimpianto per la professione ormai abbandonata, che a un amico dichiarò: "Si Rome était en France, je voudrais mourir à Rome. On y est tout près de l'éternité.
Non so, lo ripeto, se l'opera sua entrerà nella storia letteraria; so che è entrata nel cuore di molti uomini della mia generazione e vi resterà finché vivremo. Dopo, si troverà pur qualcuno che voglia rileggere quegli articoli del Taine e del France e preferirli alle frettolose necrologie di oggi.

 


Ugo Ojetti, testo pubblicato in L'Illustrazione Italiana, 1904. Da Ugo Ojetti "I capricci del Conte Ottavio - serie seconda" (prima edizione, Treves, Milano 1909).